Arrivo all’Ospedale Spallanzani da Via Folchi, dove c’è uno degli ingressi principali e mi dirigo verso l’accettazione, seguendo la segnaletica. Le strisce colorate poste sul pavimento mi aiutano a districarmi nel dedalo di corridoi, ma una volta arrivato nella sala, non vedo altre indicazioni, per cui sono costretto a rivolgermi allo sportello “Informazioni”.
«
ov’è la stanza 13?» chiedo con discrezione. «Esca dalla porta di fronte; sulla destra troverà una rampa di accesso. Entri là e segua le indicazioni.»
Esco, individuo la rampa e dei fogli con su stampato “Stanza 13” ed una freccia mi guidano fino ad un ingresso d’emergenza. Entro nel corridoio scrutando la numerazione sulle porte. …Otto, nove… dieci.. undici… tredici … Un cartello sulla porta recita “QUESTA NON È LA STANZA 13” ed un pezzettino di carta con su scritto EMATOLOGIA è incollato sulla targhetta della numerazione.
Alla fine del corridoio, la stanza numero 18 ha sulla porta un foglio stampato con scritto “STANZA 13” Prendo il numero e mi siedo poco lontano, in paziente attesa. Poche persone sparse attendono il loro turno, i volti seri, spauriti, e le mani nervosamente in movimento tradiscono ansia e preoccupazione. Una ragazza fissa il vuoto, il viso grigio verdastro mi ricorda il viso dei laureandi che vidi tanti anni fa attendere il loro turno per discutere la tesi…
Infine un infermiere esce dalla porta e uno ad uno ci chiama per una breve e discreta conversazione. È un tipo calmo, tranquillo, con lunghi capelli ricci legati in quella che vorrebbe essere una coda di cavallo. Trasmette una tranquillizzante serenità.
«Come mai è qui?» Mi chiede «Beh, il primo test l’ho fatto trenta anni fa e qualche “incidente di percorso” in un periodo così lungo può essere capitato.» Sorride mentre annota qualcosa. «Aspetti fuori e verrà chiamato dalla dottoressa, sempre con questo numero.»
Mi siedo accanto alla porta indicata ed aspetto. Un ragazzo, con un foglietto in mano, scruta nervoso le porte. Arrivato alla “Stanza 13” si ferma ed aspetta un po’. Poi, vedendo uscire una persona dalla porta vicina a me, arriva rapido, ma non fa in tempo e la porta si richiude. Bussa nervosamente… Nessuna risposta. Quando finalmente la porta si riapre per lasciare uscire il paziente, lui entra rapido, sorprendendo la dottoressa, la quale non può fare altro che lasciarlo entrare.
Dopo un tempo interminabile, finalmente la porta si riapre e la dottoressa mi invita ad entrare.
«E lei se ne sta qui calmo, calmo, mentre qualcuno le passa avanti?» «Beh… mi sono reso conto che il ragazzo era piuttosto agitato e l’ho lasciato passare.» Mi osserva con curiosità professionale. È una tipa magrolina, acqua e sapone, biondina. «Ha mai fatto il test HIV?» «Circa trenta anni fa» le rispondo «…avevo una vita un po’ più turbolenta in quell’epoca.» «Uno dei primi test, quindi.». «Ha un compagno, una compagna? È sposato?» Un leggero imbarazzo le dona un colorito rosa confetto alle guance, rivelando tutto il suo disagio nel dover chiedere informazioni così private ad un perfetto sconosciuto. Le sorrido, tranquillo. «Sono sposato, si, ed ho pensato di ripetere il test perché qualche “incidente di percorso” è capitato.» «Quando è capitato?» Mi chiede senza scomporsi. «Circa un anno fa le rispondo.» «Quindi oltre la finestra dei tre mesi.» «Ma a proposito del contagio» le chiedo «ho sentito tante leggende metropolitane… Per esempio se uno si punge con una siringa raccolta per strada, o se il dentista non ha disinfettato bene i suoi strumenti, cosa c’è di vero? » «Sono leggende metropolitane.» «Ormai abbiamo un’ampia casistica e le uniche forme di contagio di questo tipo sono avvenute o perché un infermiere si è punto mentre faceva un prelievo, o attraverso una trasfusione. Se qualcuno viene e mi racconta che si è contagiato pungendosi con un ago, personalmente non ci credo.»
«Il test è assolutamente gratuito. Lo vuole fare anonimo o a suo nome?» «Metta pure il mio nome, non è un problema.» Dopodichè, compilato e firmato il modulo, mi accompagna attraverso un percorso interno fino davanti a una porta dicendomi di aspettare lì. La saluto ed aspetto.
Dopo qualche minuto la porta si apre e riappare l’infermiere che ci aveva accolti all’inizio. Sempre con un fare tranquillo e professionale mi fa il prelievo, compila qualcosa al computer e, infine, stampa la necessaria ricevuta per il ritiro.
Dopo alcuni giorni, di primo mattino ritorno davanti alla “Stanza 13” È presto e non hanno ancora inserito il rotolo dei numeri. Alcune persone, meno ansiose delle altre incontrate la volta precedente, sono già in attesa. Dopo un tempo che sembra un’eternità, dalla porta si affacciano due donne dai capelli corti, mesciati di biondo, piuttosto rustiche e rotondette. Stanno discutendo animosamente a proposito della numerazione e sulla possibilità di aggiungere un altro numeratore. Distribuiscono i numeri in base all’ordine di arrivo e ci chiedono di aspettare.
Arriva il mio turno e il solito infermiere, un po’ innervosito dalla discussione avuta con le due donne, mi riceve. Dopo aver chiesto il mio nome, cerca in un archivio le analisi, le osserva e mi dice: «Tutto a posto, sono negative.» Lo ringrazio, prendo le analisi e lo saluto stringendogli la mano… Cammino nei labirintici corridoi dell’ospedale, cercando l’uscita. Appena fuori, respiro la frizzante aria dicembrina mentre un raggio di sole mi accarezza il viso… La vita è bella…
«
Esco, individuo la rampa e dei fogli con su stampato “Stanza 13” ed una freccia mi guidano fino ad un ingresso d’emergenza. Entro nel corridoio scrutando la numerazione sulle porte. …Otto, nove… dieci.. undici… tredici … Un cartello sulla porta recita “QUESTA NON È LA STANZA 13” ed un pezzettino di carta con su scritto EMATOLOGIA è incollato sulla targhetta della numerazione.
Alla fine del corridoio, la stanza numero 18 ha sulla porta un foglio stampato con scritto “STANZA 13” Prendo il numero e mi siedo poco lontano, in paziente attesa. Poche persone sparse attendono il loro turno, i volti seri, spauriti, e le mani nervosamente in movimento tradiscono ansia e preoccupazione. Una ragazza fissa il vuoto, il viso grigio verdastro mi ricorda il viso dei laureandi che vidi tanti anni fa attendere il loro turno per discutere la tesi…
Infine un infermiere esce dalla porta e uno ad uno ci chiama per una breve e discreta conversazione. È un tipo calmo, tranquillo, con lunghi capelli ricci legati in quella che vorrebbe essere una coda di cavallo. Trasmette una tranquillizzante serenità.
«Come mai è qui?» Mi chiede «Beh, il primo test l’ho fatto trenta anni fa e qualche “incidente di percorso” in un periodo così lungo può essere capitato.» Sorride mentre annota qualcosa. «Aspetti fuori e verrà chiamato dalla dottoressa, sempre con questo numero.»
Mi siedo accanto alla porta indicata ed aspetto. Un ragazzo, con un foglietto in mano, scruta nervoso le porte. Arrivato alla “Stanza 13” si ferma ed aspetta un po’. Poi, vedendo uscire una persona dalla porta vicina a me, arriva rapido, ma non fa in tempo e la porta si richiude. Bussa nervosamente… Nessuna risposta. Quando finalmente la porta si riapre per lasciare uscire il paziente, lui entra rapido, sorprendendo la dottoressa, la quale non può fare altro che lasciarlo entrare.
Dopo un tempo interminabile, finalmente la porta si riapre e la dottoressa mi invita ad entrare.
«E lei se ne sta qui calmo, calmo, mentre qualcuno le passa avanti?» «Beh… mi sono reso conto che il ragazzo era piuttosto agitato e l’ho lasciato passare.» Mi osserva con curiosità professionale. È una tipa magrolina, acqua e sapone, biondina. «Ha mai fatto il test HIV?» «Circa trenta anni fa» le rispondo «…avevo una vita un po’ più turbolenta in quell’epoca.» «Uno dei primi test, quindi.». «Ha un compagno, una compagna? È sposato?» Un leggero imbarazzo le dona un colorito rosa confetto alle guance, rivelando tutto il suo disagio nel dover chiedere informazioni così private ad un perfetto sconosciuto. Le sorrido, tranquillo. «Sono sposato, si, ed ho pensato di ripetere il test perché qualche “incidente di percorso” è capitato.» «Quando è capitato?» Mi chiede senza scomporsi. «Circa un anno fa le rispondo.» «Quindi oltre la finestra dei tre mesi.» «Ma a proposito del contagio» le chiedo «ho sentito tante leggende metropolitane… Per esempio se uno si punge con una siringa raccolta per strada, o se il dentista non ha disinfettato bene i suoi strumenti, cosa c’è di vero? » «Sono leggende metropolitane.» «Ormai abbiamo un’ampia casistica e le uniche forme di contagio di questo tipo sono avvenute o perché un infermiere si è punto mentre faceva un prelievo, o attraverso una trasfusione. Se qualcuno viene e mi racconta che si è contagiato pungendosi con un ago, personalmente non ci credo.»
«Il test è assolutamente gratuito. Lo vuole fare anonimo o a suo nome?» «Metta pure il mio nome, non è un problema.» Dopodichè, compilato e firmato il modulo, mi accompagna attraverso un percorso interno fino davanti a una porta dicendomi di aspettare lì. La saluto ed aspetto.
Dopo qualche minuto la porta si apre e riappare l’infermiere che ci aveva accolti all’inizio. Sempre con un fare tranquillo e professionale mi fa il prelievo, compila qualcosa al computer e, infine, stampa la necessaria ricevuta per il ritiro.
Dopo alcuni giorni, di primo mattino ritorno davanti alla “Stanza 13” È presto e non hanno ancora inserito il rotolo dei numeri. Alcune persone, meno ansiose delle altre incontrate la volta precedente, sono già in attesa. Dopo un tempo che sembra un’eternità, dalla porta si affacciano due donne dai capelli corti, mesciati di biondo, piuttosto rustiche e rotondette. Stanno discutendo animosamente a proposito della numerazione e sulla possibilità di aggiungere un altro numeratore. Distribuiscono i numeri in base all’ordine di arrivo e ci chiedono di aspettare.
Arriva il mio turno e il solito infermiere, un po’ innervosito dalla discussione avuta con le due donne, mi riceve. Dopo aver chiesto il mio nome, cerca in un archivio le analisi, le osserva e mi dice: «Tutto a posto, sono negative.» Lo ringrazio, prendo le analisi e lo saluto stringendogli la mano… Cammino nei labirintici corridoi dell’ospedale, cercando l’uscita. Appena fuori, respiro la frizzante aria dicembrina mentre un raggio di sole mi accarezza il viso… La vita è bella…