Continua (concludendo il ciclo primaverile dei quattro elementi cosmo-erotici) da
1. Aria: aurora consurgens
2. Fuoco: d’amore accesi
3. Terra: Pan e la ninfa
4. ACQUA: LA PIOGGIA NELL’IMBOSCO
Non piove più,
nel 2015,
su i mirti lontani,
su le spine d’acanto,
su le tamerici
salmastre ed arse
del vate degli italiani.
Ma non piove soltanto
sulle risorse scarse,
sulle tariffe orarie
da eiaculatio precox,
sulle ordinanze sindacali,
le multe e gli autovelox,
sulle cartelle esattoriali
da premio Nobel.
Piove sulla Paullese,
sull’asfalto lucido,
sulle ragazze in attesa
sotto gli ombrelli.
Piove sul parabrezza,
sui sogni più belli
di docce silvane.
Spero che almeno la Simonina, dopo quattro anni di familiarità, voglia assecondare questi sogni, soprattutto perché può rendermi disponibile la fratta silvestre più adatta. Bello fresco, una piovosa sera di primavera, non troppo tardi, le schiudo i miei porci pensieri: il sesso non nell’artificio del box doccia, troppo facile da ottenere, ma all’aria aperta sotto un vero temporale, un impeto dei sensi nella natura che non ho mai provato. Ottengo la solita risposta riservata alle richieste un tantino stravaganti: “tu sei pazzo” (fra le risa); “mi bagno tutta, neanche per mille euro”! Parole impegnative per una stellina del meretricio! Di sicuro me l’ha data perché sapeva che i miei costi di produzione non potevano lievitare tanto. Pazienza, so che la realtà non è la letteratura, è inevitabile una qualche diminuzione delle fantasie che provi a concretizzare, se la strada non pullula di Ermione romene pronte ad accontentare un tipo di cliente, sospeso fra ispirazione ed erezione, cui sia venuto in mente di realizzare una nuova trasposizione de “La pioggia nel pineto”, di buona, scolastica memoria, ad oltre un secolo dalla composizione bisognosa di una bella rinfrescatina, come “on the road performing art”. Un compromesso (“sotto la pioggia esci solo tu, io resto in macchina&rdquo
e l’offerta di un piccolo premio-disponibilità in cambio di spazi e tempi adeguati (saranno più 10 rispetto ai 30 ordinari del boccafiga, altro che mille euro!) ci consentono di siglare l’accordo venale.
Dispongo l’auto nel punto in cui il parcheggio sterrato, il più appartato fra i suoi rifugi che ho già descritto, nella circostanza deserto, diventa pineto e campagna. Come al solito io e Simona chiacchieriamo troppo (la famiglia, il lavoro, qualche mia battutaccia sulle sue colleghe vicine), ma un fiume di loquacità nuoce all’erotismo, quindi tronchiamo a vicenda le nostre parole troppo umane, perché solo i contatti dell’eccitazione parlino le loro parole più nuove. Simona mi attizza con calma, solleticandomi il petto, lo scroto e segandomi, io le lecco i capezzoli che si ergono sulle tettine come germogli novelli. Quando il mio virgulto, pure ormai con qualche primavera sulle spalle, erompe con slancio pieno, da me invocata, sale con le ginocchia sul sedile passeggero e comincia il normale pompino automobilistico. Visto che se ne è discusso, dico che io percepisco un paziente saliscendi a ritmo moderato, effettivamente non variato e delicatamente aiutato di mano (a scorrimento dei polpastrelli e non a segone), la cui più interessante nota tecnica è una torsione rispetto all’asta, una succhiata almeno parzialmente a cavatappi, che conferisce una particolare sensazione avvolgente. Si aggiunge che il suo risucchio ha un suono, la ciucciata altro suono, sicché la dedizione del suo lavoro di bocca conosce un raro sviluppo acustico. Tengo accesa la lampadina dell’abitacolo e guardarla darci dentro rafforza il mio coinvolgimento.
Ormai pronto, lei è ancora incredula che voglia farlo davvero, mi libero dei miei vestimenti leggieri, o meglio di polo e canottiera, per abbandonare mutande e pantaloni in un mucchietto a intricarmi i piedi, ed esco dall’auto. Spengo la lucetta, che ci lascia nelle brume della notte. La temperatura esterna, rilevata dal termometro di bordo, è di 13/14 gradi, la pioggia che scroscia fitta al primo contatto sulla pelle nuda di tutto il corpo è una frustrata di vitalità che strappa un grido. Avverto brividi che non so dire se causati da questa scossa elettrica o dall’eccitazione che monta. Simona, passata sul sedile guidatore, a portiera aperta, riparata parzialmente dal mio corpo in piedi e dalla mano teneramente a visiera sulla fronte, continua il pompino, che si fa più energico, adesso che anch’io spingo in bocca. Quindi le chiedo di sollevarsi sulle ginocchia, voltarsi e sistemarsi a pecora.
Da le soglie
de l’imbosco
non vedo che alberi
senza nome
per me, creatura
metropolitana;
il fioco lume
de la cascina
e la foschia che sale.
Piove su cespugli e foglie,
sulla verticale
della mia erezione,
sul culo piccolo
di Simona,
premuto dalle mie voglie.
Spingo, mentre le mani le allungo fino a raggiungere il seno, ma niente in quel momento mi eccita come la figa all’aria e la pelle rosa del culetto di Simona che, malgrado le sue intenzioni, piccola rivincita delle mie fantasie, sporge oltre il tetto dell’auto, rigandosi di gocciole, e si offre fresco e molle di pioggia, schiuso come una foglia, alle mie carezze e al palpeggiamento. La faccio girare di tre quarti verso il volante, in modo da assumere a mia volta una posizione che mi immerge ancora di più nella campagna buia; affondo e vengo.
Torno immediatamente a rifugiarmi in macchina. Sono attrezzato con una spugna che prima passo io sulle candide chiappette di Simona, di coccole aulenti, e, dopo tale contatto nobilitante, ho il privilegio di usare per me. Lei però mi sottrae l’iniziativa e la spugna, colmandomi di sorprendenti attenzioni: “vieni, che ti asciugo io. Se no resti bagnato”. Mi sfrega energicamente la pelle, mi friziona i capelli fradici, dispiacendosi poi di avermi scompigliato le chiome. Solo l’umidità dell’acqua irrimediabilmente assorbita dal pantalone e dalle mutande mi farà compagnia fino a casa. Mentre torno a infilarmi la canottiera mi dice ancora: “guarda che l’hai messa al contrario, si dice che non va bene” (nel senso che porta sfiga). Al che devo rivolgerle la minaccia più temibile che possa indirizzare ad una donna: se esagera con queste premure la sposo. La risata acuta e fragorosa di questa ragazza che sa sempre stare al gioco è di nuovo corrente vitale. Tutto di questo inaspettato post-liminare, il crepitio della pioggia che dura, i vetri appannati, il ronzio e la ventilazione del riscaldamento interno al massimo che ricorda un asciugacapelli, il caloroso accudimento di Simona, avvolge la fine del nostro incontro in un’atmosfera che raramente circonfonde gli amori stradali, rievocando in me i fremiti del dopo-doccia o del dopo-bagno con la fidanzata, ormai nella notte dei tempi.
Il cuor nel petto
gelido del puttaniere
batte un palpito
nuovo: un lampo
d’invidia
per la vita intima
che si è precluso.
Ma conosce l’insidia
de la favola bella
che una notte l’ha illuso,
che oggi v’illude,
o puttanieri!