3 aprile 2020 - 07:18

Coronavirus in Germania, la storia dell’indagine sul focolaio di Heinsberg (e i suoi primi risultati)

Alla fine del primo step del suo studio epidemiologico, condotto come un’indagine di polizia, il professor Hendrik Streeck sostiene di aver capito alcune cose importanti sul virus (ad esempio: nessuno si è infettato al supermercato), con conseguenze importanti sulle chiusure totali, sulle persone più a rischio, e sui test per il personale sanitario

di Sandro Orlando

Coronavirus in Germania, la storia dell'indagine sul focolaio di Heinsberg (e i suoi primi risultati) Il comune di Gangelt, nel distretto di Heinsberg
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Quanti sono i contagiati reali, e come si trasmette il virus? Perché qualcuno si infetta, e altri no? Sono alcune delle domande a cui sta cercando di dare una risposta il professor Hendrik Streeck, l’epidemiologico dell’università di Bonn che è stato tra i primi a scoprire che la perdita del senso del gusto e dell’olfatto costituiva un sintomo frequente nei malati di Covid-19.

Al professor Streeck il ministro-presidente del Land Nordreno-Vestfalia, Armin Laschet (Cdu), ha affidato un incarico delicatissimo: capire come si trasmette il virus, determinare cioè come agiscono le catene epidemiologiche, per distinguere le situazioni in cui effettivamente ci si infetta, da quelle in cui i rischi sono minori o inesistenti.

E il primo risultato di questa indagine condotta su un campione di popolazione nel distretto di Heinsberg, il più grande focolaio di contagi in Germania, è sorprendente: «È ancora importante mantenere le distanze – dice il professor Streeck in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine-, ma finora non abbiamo rilevato alcuna infezione che si sia verificata facendo la spesa o su un autobus». E ancora: «Credo che ristoranti, negozi, supermercati e così via non presentino rischi di infezione».

Per arrivare a questa conclusione l’epidemiologo ha isolato mille persone nel distretto di Heinsberg, che sono state sottoposte a tutta una serie di esami e questionari: tamponi faringei, test degli anticorpi, anamnesi delle malattie pregresse, domande su spostamenti e contatti, fin alla ricostruzione nel dettaglio delle situazioni in cui può essere avvenuto il contagio.

«Ho un dottorando che si occupa solo della Kappensitzung di Gangelt», racconta l’epidemiologo, con riferimento alla tradizionale festa di Carnevale tenuta nel piccolo comune sul Reno a metà febbraio. «Svolge una vera e propria attività investigativa sulla base dell’elenco dei partecipanti  — continua — . Dove sedevano le persone? Tutti coloro che sono stati infettati erano insieme, o in tavoli separati? Più persone hanno bevuto dallo stesso bicchiere? E gli occhiali, erano stati lavati in modo corretto? Il problema è che quando si è capito che c’era un’epidemia, non è stato fatto il test a chi era presente; sono stati solo invitati a mettersi tutti in quarantena».

Evidentemente però non tutti i partecipanti sono rimasti contagiati. Ecco perché il lavoro pionieristico di Streeck e del suo team può condurre a una comprensione determinante per la lotta al virus: «Se vogliamo arrivare a contenere l’epidemia, dobbiamo fare molti più test in Germania – aggiunge il professore –. La catena dell’infezione può essere rotta solo testando e isolando».

Nelle abitazioni di alcuni pazienti infetti il team di Streeck ha riscontrato ad esempio tracce del virus anche sulle maniglie delle porte: ma questi campioni non potevano trasmettere il contagio. «I politici devono prendere una decisione su quali misure abbiano un senso e quali no, quali dovrebbero essere allentate, e quali potrebbero aver bisogno invece di essere rafforzate», continua l’epidemiologo, e per questo c’è bisogno di dati certi.

Streeck invita tutti i suoi colleghi ad effettuare delle indagini analoghe su campioni di popolazione ristretti, che possano portare alle conoscenze che servono. E ricorda: «Abbiamo notato subito che i focolai più grossi sono scoppiati sempre dopo alcuni grandi eventi, come feste spensierate»: nella località sciistica di Ischgl, in Tirolo, come dopo la partita Atalanta-Valencia a San Siro, in un club di Berlino o durante il Carnevale di Colonia.

Da qui l’ovvia conclusione che anche nei prossimi mesi sarà necessario evitare raduni di massa. Ma il caso della società Webasto in Baviera, da cui sarebbe partito il «paziente zero» che ha trasmesso il contagio anche nel Lodigiano, è rivelatorio: perché la dipendente cinese che ha portato il virus in Germania non ha infettato né altri passeggeri nell’aereo in cui si trovava, né il personale dell’albergo in cui ha alloggiato.

«Da questa e dalla mia precedente esperienza, ne consegue anche che non abbiamo bisogno di restrizioni estreme sul lungo periodo», conclude il professore: «Personalmente ritengo le misure che abbiamo ora siano molto drastiche. È sempre drammatico quando qualcuno muore. Ma la domanda è se queste misure compromettono altri mezzi di sussistenza e quindi mettono a rischio la vita stessa».

Un aspetto cruciale resta però la protezione delle categorie a rischio, come gli anziani e il personale medico. Da qui la raccomandazione dell’epidemiologo tedesco a testare in continuazione medici e infermieri. «Suggerisco di sottoporre tutti i dipendenti di una casa di cura o clinica ogni quattro giorni ad un test di gruppo. Con questo metodo si possono analizzare dieci o più campioni contemporaneamente. Se sono tutti negativi non c’è problema. Solo quando viene rilevato il virus, è necessario eseguire degli esami individuali. Con questa procedura si potrebbero monitorare tutti gli operatori sanitari della Germania. I test di gruppo sono usati da anni nella medicina trasfusionale. Penso che sia inaccettabile tenere segregati gli anziani per tutta la durata di questa pandemia. Perché le persone anziane hanno un bisogno estremo di contatti sociali».

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